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“Scelta civica – Monti per l’Italia” non ha capito che …

Il parziale fallimento di Mario Monti e dei ministri che hanno guidato il Paese per oltre un anno, in un compito difficile, dice molto sulle élite italiane dalle quali provengono. Ignorano i meccanismi della politica e della capacità di leadership. Hanno adottato provvedimenti indispensabili, ma non si sono mostrati consapevoli che essi dovevano essere ‘venduti’ politicamente ai cittadini (ad esempio, prevedendo forti indicazioni di equità sociale). La democrazia, regime del suffragio universale e dell’uomo della strada, lo esige, tanto più quando i tempi sono difficili e ai cittadini si chiedono sacrifici non indifferenti. Chi governa ha l’obbligo di spiegare, di enumerare cifre, vincoli e rimedi: cose sacrosante, che devono essere accompagnate però dalla capacità di parlare ai cuori più che alle menti, di invogliare al riscatto, di muovere alla tenacia, all’orgoglio, alla speranza. Atteggiamenti che appartengono alla politica e di cui i politici devono essere capaci, mostrando di:

– essere convinti della propria autorevolezza,

– avere dimestichezza con il comando sociale e con l’esposizione pubblica,

– essere animati da un pathos di condivisione nazionale, da una capacità di comunicare e di mettersi personalmente in gioco

capacità queste che le classi dirigenti italiane, chiuse in sè, possiedono in scarsa misura; cose alle quali il lungo e feroce dominio degli apparati dei partiti sulla cosa pubblica le ha disabituate, staccandole dal profondo della politica. Continua a leggere

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La strada della rinascita della politica

Per non essere “democrazie della spesa”, la strada è una e difficile: trovare nuovi contenuti alla democrazia; abbandonare la visione solo economica del nostro futuro e riscoprire la politica come capacità di animare un dibattito pubblico con verità, con capacità di visione e di mobilitazione ideale; una politica che allarga lo spazio ai valori essenziali che ci preme salvaguardare, al modello di società che vogliamo. Con questa politica riusciremo, se ne saremo capaci, a far sì che le nostre società non diventino una docile e invivibile appendice della Borsa.

Il governo democratico di un Paese deve essere capace di una pedagogia civile ispirata alla verità. Continua a leggere

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Non da oggi il liberalismo è svanito dall’orizzonte italiano

L’Italia non è mai stata liberista. Meglio: il liberismo ortodosso è stato di sparute minoranze, nemiche di coalizioni di interessi particolari a danno dell’interesse generale. L’economia non è stata nelle mani della libera impresa e della concorrenza. Cavour, ad esempio, favorevole all’intrapresa privata, fece intervenire lo Stato in ogni investimento ritenuto necessario allo sviluppo economico. Dal 1861 fino a Giolitti, tutta la classe dirigente fu d’accordo nella scelta protezionista.

Alla destra politica sono mancati:

– senso dello Stato e della dignità delle istituzioni;

– attenzione per l’etica pubblica, per il buon governo e per le sue regole;

– impegno per il bene collettivo;

– preoccupazione per gli interessi nazionali;

– opportunità di marcare una giusta distanza dalle richieste non sempre accettabili della Santa Sede, presenza preziosa per l’Italia, ma non priva di potenziali problemi per la sua statualità. Continua a leggere

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Italia e Unione Europea: quale corresponsabilità?

Spesso, quando presentano decisioni che molti cittadini non condividono, i politici si giustificano dicendo: “Lo chiede l’Europa”. “L’Europa ha deciso così. Non possiamo farci nulla”. Negli ultimi 30 anni, le classi dirigenti italiane hanno pensato di risolvere in questo modo i problemi del Paese, restio a cambiare abitudini e pregiudizi, legato ai suoi vizi, a mille interessi contrapposti, a tenaci corporativismi. Sappiamo che l’Italia è diffidente verso le direttive dall’alto e le norme; abituata a usare lo Stato e a piegarlo al proprio utile; quasi mai a piegarsi all’utile dello Stato.

Perché, nonostante le difficoltà, le classi dirigenti hanno preso questa strada, prendendo atto che l’Italia è politicamente indomabile e lo hanno fatto specialmente a partire dalla fine degli anni 80, quando fu chiaro che la spesa pubblica facile, iniziata 15 anni prima, aveva creato una situazione finanziariamente insostenibile? Avevano preso atto che era impossibile togliere al Paese rendite, privilegi, abusi o ridimensionare benefici a cui si era abituato: Continua a leggere

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Governatori del nulla. La debolezza delle leadership

Non si fanno riforme perché non si è capaci di farle

I popoli occidentali si rendono conto che i propri governanti tengono sotto controllo un bel nulla e non riescono a immaginare vie di uscita dalla crisi. Scoprono di essere nelle mani di leader privi di temperamento, di coraggio e soprattutto di visione. Non è un caso. Il deterioramento qualitativo delle classi politiche è prodotto inevitabile della ‘democrazia della spesa’ che caratterizza i nostri Paesi: governare significa disporre di soldi, non importa come reperiti, o prometterli; significa spendere e ancora spendere per soddisfare quanti più elettori possibile, fino a indebitarsi, con relative catastrofi finanziarie. L’esercizio del potere si spoglia della necessità di conoscere, di capire, di progettare e soprattutto di scegliere e decidere. Il denaro diventa intrinseco alla politica e appare il vero e unico scopo del rapporto politico: per chi lo elargisce e per chi lo chiede o lo riceve. E dove il danaro è tutto, inevitabilmente si infila la corruzione. La democrazia della spesa insomma svilisce la sostanza e l’immagine della politica e contribuisce a selezionare le classi politiche non premiando i migliori, per esempio quelli che pensano all’interesse generale. Continua a leggere

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Perché in Italia le riforme risultano impossibili?

Ogni tot anni si vota. Per conservare il potere occorre un voto in più dei rivali, mostrando che i risultati ottenuti sono superiori alle loro promesse. La crisi economica e politica in atto obbliga le democrazie, fondate sul suffragio universale, a esplorare nuove strade per vincere le elezioni. Quel voto in più è decisivo. Chi programma la politica prende atto che, al fine di vincere le elezioni, non hanno più presa motivazioni ideologiche o etiche. A partire dagli anni 70, motivi di consenso fino ad allora decisivi (la difesa di interessi nazionali, l’opposizione al comunismo, l’anti fascismo, l’ispirazione cristiana) hanno perduto di peso o sono svaniti. Trovano spazio limitato valori personali e collettivi, la qualità della vita individuale e della convivenza, le prospettive del futuro. Viene espulso dal dibattito politico, basta pensare alla recente campagna elettorale, ogni elemento ideale. Continua a leggere

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Riforme? No Grazie

Il problema profondo, strutturale dell’Italia è l’esistenza di un immane blocco sociale, con due obiettivi: la sopravvivenza e l’immobilità. “Io voglio la mia parte e nulla deve cambiare”. Questo macigno oscura il nostro futuro e appare invincibile. Ne fanno parte:

– vasti ceti professionali, organizzati intorno ai rispettivi ordini,

– statali organizzati,

– alti burocrati collegati con la politica,

– commercianti evasori,

– pensionati nel fiore degli anni,

– finti invalidi,

– addetti a un ordine giudiziario intoccabile,

– tassisti a numero chiuso,

– farmacisti,

– concessionari pubblici a tariffe di favore, Continua a leggere

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Da decenni in Italia parliamo di riforme. Perché non si fanno?

Spunti sulla politica in Italia, liberamente elaborati da Tito Brunelli a partire da scritti di Ernesto Galli Della Loggia.

Le riforme sono il mito della politica italiana: invocate e promesse; mai realizzate. Nelle campagne elettorali immancabilmente riemergono, con una valutazione unanime: solo realizzando le riforme il Paese può riacquistare efficienza, ricominciare a crescere, restare unito e sperare di salvarsi.

E allora perché non si fanno? Cosa lo impedisce? La risposta è semplice: i cittadini non le vogliono. Esse suscitano un’opposizione fortissima, in grado di bloccarle. Ogni riforma, in ogni Stato, può essere impopolare, ma non sempre cambia l’organizzazione sociale. In Italia invece dire ‘riforme’ significa dire rivoluzione, la più difficile delle rivoluzioni: quella culturale. Soprattutto le riforme più necessarie rompono il meccanismo su cui funziona la società, ne mutano spirito e mentalità. Qualunque sia il provvedimento per modernizzare il Paese e rimetterlo in carreggiata, esso colpisce uno dei tre pilastri su cui si regge gran parte della società italiana (e che la tiene nell’immobilismo): il privilegio, il corporativismo, la demagogia. Intendiamoci: è doveroso tener presenti gli interessi particolari e settoriali, che non potevano costituirsi e consolidarsi senza una premessa culturale, che ne è diventata l’anima, condivisa dall’intera società italiana. Ciò che ci blocca è che in Italia ogni individuo, istituzione e impresa capitalistica non sopporta il merito, la concorrenza, i controlli. Continua a leggere

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